giovedì 5 settembre 2013

Jakarta, 3 settembre 2013

Prendendo il bus del festival per andare al Museo Nazionale che, come è scritto sulla Loney Planet, è imperdibile: il più ricco e ben organizzato dell’intera Indonesia. E’ qui che Il Festival ha eletto il suo quartiere generale: uffici, accoglienza e due teatri oltre agli spazi a pianterreno in cui è allestito il buffet. L’ingresso al museo è libero e stamane, martedì, ci entravano scolaresche cinguettanti in uniforme austera, ma non come quello delle adolescenti castigate e ultra monacali. Più, in questa terra, l’esuberanza dei corpi, dei caratteri del clima accentua l’ erotismo, più capelli, braccia, gambe, colli vengono coperti e mimetizzati in vesti larghe e informi. I controlli sono rigidi non solo sul corpo delle donne. Questo è il Paese dove lo spaccio di droga è punito con la pena capitale e dove un ladro di portafogli non deve cavarsela facilmente con la legge. Nell’intervallo tra gli spettacoli della mattina e del pomeriggio siamo andati a Kota, un quartiere a Nord di Giacarta che corrisponde all’antica Batavia, il centro della presenza coloniale olandese nell’Indonesia che è indipendente solo dal 1945. La fermata del bus è di fronte al Museo Nazionale, il biglietto costa circa 3 rhupie e mezzo, all’incircau 2,5 centesimi di Euro. Lo stipendio minimo di un lavoratore è di 250 rhupiae al mese e la nostra moneta gode non solo di un cambio favorevole, ma del basso costo della vita. Eravamo in attesa, alla fermata del bus, quando è sceso dal primo , diretto verso Kota, un poliziotto che ha perquisito molti passeggeri e guardato nelle borse delle passeggere. C’era stata, a bordo, la denunzia di un furto. Il bus ha proseguito semivuoto e abbiamo dovuto attenderne tre prima di salire, tant’era lunga la coda. Kota , che avevamo immaginato sullo stile di un centro storico olandese, è un quartiere con grandi piazze, con una delle poche vie pedonali di tutta Giacarta, un ponte levatoio, l’unico superstite, il Municipio dell’ex Batavia. La guida Lonely lo descrive come un quartiere con un che di grazioso che farebbe pensare al pittoresco. Nulla di ciò, ma povertà e immondizie bruciate all’aperto, strade dissestate, traffico ultracaotico e povertà. Alcuni artigiani occupano le strade, cuciono a macchina teli azzurri di plastica, di quelli che potrebbero coprire un aereo plano,un altro che sembra un arrotino e fa girare una grande ruota lima, arrotonda sassi fino a trasformarli in simili pietre dure da incastonare in anelli. Dappertutto carretti per l’acquisto di papaya e altri frutti esotici, bottiglie d’acqua minerale coperte da lastre di ghiaccio, per tenerle al fresco, come si faceva da noi fino alla fine degli anni. Ciò che più resta impressa è la voce delle persone che crea nelle strade un sottofondo cantilenante, non ha mai tonalità elevate, ma cinguettanti. Spesso ripetono una sillaba, ne, ad esempio, che diventa “nenenenenene…” ripetuta in coro, quasi fosse un canto tribale o ciò che ne resta. Ridono spesso qui, uomini e donne, giovani e vecchi: ridono quando chiedi un’informazione e non capiscono, quando ti vedono passare e sei diverso, quando osservano come sei vestito ( o svestito). Le sedi degli eventi teatrali sono dislocate in quattro luoghi diversi e molto distanti tra loro, per cui giriamo, salendo e scendendo dai bus che il Festival mette a disposizione. Ieri pomeriggio dal Museo Nazionale al parco Taman Mini abbiamo impiegato due ore, ma ne è valsa la pena. Lo spettacolo della fiorentina Valeria Sacco della compagnia “Riserva Canini Teatro” era molto bello ed anche il tema: la marionetta che prende vita dalle mani di chi ne tirava le fila, un mix di teatro d’ombre e recitazione. L’intero Festival esplora le innovazioni in atto in tutto il mondo sul teatro dei Puppets, che potrebbe apparire un genere obsoleto in epoca digitale e che invece si propone in tutta la sua attualità mescolato ai vari generi. Anna





































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